Il Vento e gli Alberi: tra Ragione e Poesia

Il Vento e gli Alberi: tra Ragione e Poesia

Nei modelli matematici che spiegano il rapporto tra vento e alberi, la chioma di questi ultimi viene rappresentata come una vela (cfr K. Mattheck- Bràhler 19). In effetti il paragone è estremamente pratico, soprattutto quando occorre quantificare le forze in gioco, ed esprimerle in termini numerici.

Ma non è propriamente azzeccato, in quanto una vela ed un albero assolvono a compiti diversi. Certo, avere dei numeri su cui ragionare ci rassicura, e ci dà quel senso di controllo con il quale amiamo gestire e catalogare tutti i fenomeni del mondo che ci circonda.

E benché si debba ammettere che ad oggi neppure il più sofisticato modello matematico sia in grado di esprimere con esattezza come un albero dissipi realmente le forze impresse dal vento,il contributo di fisici e matematici alla moderna arboricoltura ed alle valutazioni di stabilità degli alberi resta fondamentale ed ineliminabile.

In soldoni, ed a grandi linee, funziona così: al primo alito di vento le foglie degli alberi si dispongono parallelamente alla sua direzione, e la nostra vela, che per mare è fatta per catturare e trattenere il vento, diventa subito un drappo tutto bucato, a brandelli.

Se il vento rinforza un po’, la resistenza delle foglie trascina il ramo in un dolce piegamento,anche questo atto ad assecondare il vento, non a resistergli; e la nostra vela, giù lacera, riduce addirittura le sue dimensioni. All’aumentare delle intemperanze di Eolo, la strategia si fa più complessa: flessioni e torsioni dei rami dissipano la spinta del vento, e le forze residue vengono scaricate sulle branche principali, sollecitate dunque anch’esse a compiere movimenti che assecondino le spinte del vento.

E così via con un sistema a cascata di trasferimenti di forze residue, fino al fusto, che pure si flette, disperdendo energie e dando un ulteriore contributo alla riduzione delle dimensioni della vela (flettendosi, l’albero si abbassa). Quanto resta della spinta del vento viene ulteriormente scaricata lungo il fusto fino alla zolla radicale, dove si gioca l’ultima partita tra il vento e l’albero.

Quando una vela cattura il vento (o, al contrario, quando il vento cattura una vela: è solo questione di punti di vista), questa oppone la massima resistenza e trasferisce la forza prodottalungo un ‘albero’ (guarda caso), fino al vascello, consentendogli di scivolare sull’acqua. Quando il vento tenta di catturare un albero, ha a che fare con un individuo sfuggevole, flessibile, dalla forma imprevedibile e sempre mutevole; come lottare con un elastico.

Per questo, senza nulla togliere alla genialità di Mattheck, amando gli alberi prima di tutto per motivi estetici e poetici, se dovessi trovare un paragone del rapporto esistente tra alberi e vento,mi verrebbe in mente lo sforzo di chi tenta di attingere acqua dal pozzo con le mani: per quanto la conchetta sia preparata accuratamente, e le dita sigillino con forza ogni pertugio, alla fine si resta sempre con in mano nient’altro che, appunto, un pugno d’acqua.

L’esperienza del vento tra le fronde, vissuta dall’interno di un albero, vincolati con corde alle cime più alte, è quanto mai illuminante sulla complessità e sulla perfezione dei meccanismi spiegati poc’anzi. Sui platani di Rocchetta Tanaro, ancorati su rami così esili e così lunghi che, in omaggio alla regione che ci ospitava, chiamavamo ‘grissini torinesi’, era sufficiente una bava di vento per veder innescare sotto di sé un carosello incredibile di oscillazioni e ondeggiamenti.

Non è paura quella che assale: al contrario, è un piacevole abbandono tra braccia rassicuranti,che cullano, che desistono docilmente al vento con movimenti ampi e lenti, a descrivere perfette ellissi nel cielo. Alla fine si torna sempre là dov’eri all’inizio, proprio nello stesso punto nel vuoto, in compagnia di quel pezzo di albero che occupa il tuo stesso spazio. L’albero non si oppone al vento: lo asseconda. Non resiste; caso mai desiste.

È nato con il vento; molto spesso è il vento che ne ha trasportato il seme; è cresciuto con il vento, ogni giorno ed ogni notte, per decine di anni, a volte centinaia: una danza continua, incessante. E ovviamente prevista. La sua natura gli impone di dispiegare la chioma alla luce del sole, fonte della sua vita, più in alto di tutti, incontrando e scontrandosi con il padrone indiscusso del regno del vuoto: il vento, a cui anche gli alberi si inchinano.

Soffia il vento, e gli alberi esercitano ciò che fanno ogni giorno della loro vita, che è frutto di un corredo evoluzionistico in marcia da trecentocinquanta milioni di anni. Si può temere che quell’amorevole dondolio ti tradisca? Io, e i miei quattro milioni di anni evolutivi, siamo bambini tra le braccia di questi giganti: incapaci di capire, troppo immaturi per poter anche solo immaginare cosa sia davvero un albero.

Così, con tutta la mia genuina e fanciullesca ignoranza, un bel giorno, uscendo di casa, noto quell’albero, che è sempre stato là, ma lo noto davvero solo adesso: e guarda com’è diventato alto! Ma non sarà pericoloso? Sarà meglio abbassarlo un po’! Da un po’ di tempo a questa parte, i peggiori disastri a danno degli alberi non è il vento a compierli.

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